Russofobia strabordante in Europa: il caso Gergiev a Caserta, la “Piciernenko”, la guerra in Ucraina contro l’imperialismo di Putin

La disputa teologica sul ragionamento politico
La russofobia, che pervade l’intera vecchia Europa, scaturisce da una lettura ideologica vetusta delle relazioni internazionali come urto metafisico tra democrazie e autocrazie

Esulta come una tifosa della curva per l’annullamento del concerto alla Reggia di Caserta: “Abbiamo vinto!”. L’esperta di scontrini, nonché appassionata del linguaggio politico di De Mita, è pronta ad azzannare tutto quanto nel mondo stravagante dei suoni assapori d’Oriente. Perciò si propone come la versione mediterranea di un antico Segretario generale d’origine ucraina, quel Cernenko che nel 1984 sibilò il boicottaggio sovietico alle olimpiadi organizzate dagli Yankee. Con la medesima fuga da ogni dialogo con l’altro, la “Piciernenko” urla il suo “niet” alla presenza sul suolo patrio di un temibile direttore d’orchestra russo, nientemeno che simpatizzante dello zar. Lo reputa capace di ingannare la platea circuendola mediante la diabolica oscillazione delle bacchette.
I liberali, in festa per la giuliva consociazione tra la ricercatrice inflessibile di devianze russofile e il fermo titolare del dicastero della Cultura, gioiscono di aver trasformato la residenza dei Borbone nella “Reggia di Calenda”. I fogli della trincea, Repubblica e Corriere, hanno evocato 700 fantomatici premi Nobel – avranno ascoltato anche il parere di Quasimodo o di Grazia Deledda – esortanti in massa alla virile impresa di trasferire finalmente la guerra dal necessario (sanzioni economiche, forniture militari) al superfluo (lettere, spartiti, piste d’atletica). Dentro una contesa che si è fatta ormai totale, i democratici pretendono l’annichilimento civile di chiunque nelle arti si sottragga ad una liberatoria professione di fede in senso antirusso. Lo scontro si rivela privo di limiti. Ogni potenziale amico del nemico va inquadrato come un nemico oggettivo – “un nemico della democrazia”, per Repubblica – da azzittire a tutti i costi. Dato che in giro non mancano tipetti sbrigativi, come quelli che non ci misero nulla a far saltare per aria la Toyota di Darya Dugina, figlia di un filosofo in odore di putinismo, sarebbe più saggio non avallare l’immagine del direttore in confidenza con il despota quale persona da annientare sulla scena pubblica.
Anche se Meloni con il paracadute sulle spalle non ha ancora presentato la formale dichiarazione di guerra alla Russia, i liberali sognano ugualmente il ritorno alle pratiche brutali delle guerre di religione. A fronteggiarsi, secondo una visione fanatica e premoderna, non sono gli Stati con le truppe, ma i singoli, considerati ovunque si trovino, nella loro nuda corporeità, come stranieri da eliminare, se non fisicamente, almeno sul piano intellettuale. Chissà che farebbero la “Piciernenko”, Lepore e i liberali di complemento, di due illustri accademici americani che cercano di sondare la strategia militare di Putin senza regali preventivi alle esigenze della russofobia incipiente. John J. Mearsheimer e Sebastian Rosato (in How States Think, Yale University Press, 2023) si concedono licenze d’autore (“Non soltanto la decisione della Russia di invadere l’Ucraina è stata razionale, ma non è stata nemmeno anomala”) che in un’Europa che ha indossato la mimetica costerebbero davvero caro.
A Boris Johnson e a Joe Biden, che descrivevano Putin come un “macellaio” matto, reo di aver intrapreso una indiscriminata guerra di conquista dello spazio europeo, i due politologi ribattono che resta valido il principio della piena razionalità dell’homo theoreticus che sovrintende a ogni politica estera, compresa quella del Cremlino. Non è allora il caso di scomodare “l’autocrate squilibrato”, che in solitudine si prende lo sfizio di avviare la cosiddetta operazione speciale. “Le prove disponibili – registrano Mearsheimer e Rosato – raccontano una storia differente: i subordinati di Putin concordavano con la sua opinione circa la natura della minaccia che la Russia si trovava ad affrontare, e il presidente si era consultato con loro prima di decidere sulla guerra”. L’ordine di sconfinare appare dunque l’esito di un processo deliberativo, che ha visto il coinvolgimento di politici, consiglieri civili e militari. Anche per questo procedimento decisionale allargato, l’accusa rivolta a Gergiev di essere il sodale di un tiranno elettivo è vuota e implica la negazione di ogni legittimità spettante alle istituzioni di un paese sovrano, oltre che l’evidente abbattimento dello spartiacque tra arte e politica. La russofobia, che pervade l’intera vecchia Europa, scaturisce da una lettura ideologica vetusta delle relazioni internazionali come urto metafisico tra democrazie e autocrazie. Qualunque soluzione politica evapora e trionfa una calda disputa teologica, che non accetta la radice prosaica delle ostilità e quindi la possibilità del compromesso.
Per Mearsheimer e Rosato, l’obiettivo dei carri in marcia verso Kiev non era di sorreggere una insensata nostalgia dell’impero perduto. Dietro c’era il tentativo (a suo modo realistico) di preservare una vitale condizione di equilibrio geopolitico. I due studiosi ritengono che, accantonando valutazioni morali estrinseche e anche un giudizio collegato ai risultati ottenuti, l’evento che scatena il ricorso alla violenza contro un altro territorio risponde ai canoni della prevedibilità. La loro conclusione è netta: “I leader russi si sono basati su una teoria attendibile. In breve, si è trattato di una guerra di autodifesa volta a impedire un’alterazione sfavorevole nell’equilibrio di potere. Gli Stati Uniti e i suoi alleati non erano disposti ad accogliere le preoccupazioni di sicurezza avanzate dalla Russia. Stando così le cose, Putin optò per la guerra”. Nell’ottica di garantire la sicurezza nazionale, percepita come un bene fortemente a rischio dopo lo sbandieramento dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato, per la élite di Mosca non rimaneva che l’azzardo. Dinanzi alla eventualità di una California separatasi dagli Usa e ospitante basi russe o cinesi, la reazione dello Zio Sam non sarebbe stata molto diversa. La resistenza a impiegare criteri politici ispirati al realismo, nell’esame del conflitto ibrido in corso, non fa che rendere la guerra insolubile attraverso gli strumenti negoziali. I governanti e gli analisti occidentali, che raffigurano Putin come un dittatore folle, sprovvisto di una politica estera decifrabile, perfetta reincarnazione di Hitler, fanno un simile giochino poiché intendono demolire le fondamenta stesse della diplomazia. Non si viene certo a patti con un monarca sanguinario e per giunta irrazionale.
In direzione analoga si muovono le recenti scomuniche di artisti: i musicisti russofoni respinti segnalano il rifiuto dei liberaldemocratici di riconoscere che tra i contendenti non esistono distanze trascendenti né abissi valoriali, semmai contingenti interessi strategici che collidono. La Meloni osannante il rinnovato contegno bellico di Trump, la “Piciernenko” cacciatrice di talenti condividono quanto asserisce la premier danese Mette Frederiksen: “La guerra in Ucraina non è mai stata solo una faccenda ucraina. Questa è una guerra sul futuro dell’Europa. Dovremmo smettere di pensare agli aiuti all’Ucraina come donazioni. Questa è la nostra guerra contro l’imperialismo russo”.
Conducono il continente verso il baratro i pallidi combattenti democratici che magnificano Netanyahu perché “fa il lavoro sporco per noi” e inaugurano la caccia alle streghe avendo paura di udire nelle sale qualche melodia di Verdi. Costoro, strappate le costituzioni sulle quali hanno giurato, danno l’impressione di un ceto politico alla deriva, poco credibile come alfiere delle democrazie. La caduta rovinosa di stanche culture politiche, sedotte dal verbo della guerra al punto da scambiare i solisti del teatro di San Pietroburgo per un esercito di aggressione, sembra incombente. La certezza è che da una sbornia militare si esce sempre a destra. Quando riprende, avverso ai governi guerrafondai, il movimento di popolo per la pace? Solamente da qui può rinascere una nuova politica.
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